mercoledì 18 luglio 2012

La morte di Gheddafi. La fine del tabù del Capo come rito di passaggio di un’epoca. (2011)

E’ di qualche giorno fa la notizia della cattura e della morte del leader libico Muammar Gheddafi. Ovviamente c’è chi non crede alla notizia, sospettando l’intervento in extremis di fantomatici sosia e complotti internazionali che abbiano garantito un qualche genere di segreto salvacondotto al vecchio leader. Per costoro la ratio del presente commento sarà di certo inutile. Chi pensa che i dittatori (così come i proverbiali rompiballe) non crepino mai, si accomodino pure a pensarli tutti insieme a sbicchierare alla faccia nostra alle isole di Antigua oppure in qualche altro sperduto paradiso del globo. Tutti: da Hitler a Bin Laden, passando per Mussolini e Pol Pot accompagnati da Saddam, Ceausescu e Gheddafi a giocare a scopone scientifico con i sette saggi di Sion ed il Gran Maestro dei Templari, protetti da un manipolo di agenti della CIA e del KGB solidali nel proteggere l’ineffabile segreto. I complottisti e gli scettici per “partito preso” credano pure quello che vogliono, mentre la storia fa il proprio corso...
Tornando invece alla realtà ed alle scene di sangue e di morte che hanno incorniciato gli ultimi momenti del vecchio leader, molte sono state le discussioni in merito. Furio Colombo sulle colonne del Fatto Quotidiano ha vergato una grande pagina di giornalismo parlando della maledizione del tiranno: Il dittatore prima ci offende calpestando i diritti civili, uccidendo la libertà e minacciando i propri nemici veri o presunti e poi ci rende simili a lui nel momento della dipartita. Finalmente piegato dopo una vita di tracotanza e superbia, caduto nella polvere dopo essere stato al potere per troppi anni, lacero, sanguinante e spaventato, dopo aver spaventato e schiacciato senza pietà i propri oppositori: La soddisfazione di chi osserva queste scene è primordiale, bestiale, sordida, ma anche liberatoria, c’è da ammetterlo. Un misto di orrore e piacere difficile da spiegare... Ed è proprio in quel momento, gustando quell’umana soddisfazione, che si rischia di divenire, a nostra volta, carnefici. Estinguere il male con il male, sostituire un tiranno caduto con la furia bestiale del vincitore che non lo rende migliore di chi è stato appena scalzato. Eppure scene simili si ripetono generalmente ad ogni caduta di regime. Comprensibile ed insopprimibile risentimento/rivincita degli oppressi? certo può darsi... Furio Colombo ha certamente ragione: il risentimento tanto sopito rischia di “imbestialire”, su questo bisognerebbe riflettere ed a questo imbarbarimento andrebbe posto un freno di civiltà e di maturità. Ma potrebbe esserci anche un’altra chiave di lettura? La morte ed il “sacrificio” del vecchio capo potrebbero essere visti anche sotto il profilo sociologico, quasi mistico-religioso? In molte culture la successione cruenta del potere è un fatto sociale di importanza angolare. L’antropologo inglese Frazer, ad esempio, citava il Rex Nemorensis della più antica religione romana: Il re/sacerdote dei boschi di Nemi, consacrato a Diana, veniva periodicamente sostituito dal nuovo sovrano previo assassinio del precedente “monarca”. In molte altre culture l’uccisione (rituale oppure fisica) del vecchio capo si configura come rito di passaggio da un’epoca all’altra, come punto di rinnovamento e come gesto apotropaico per allontanare gli “spiriti maligni” che possano inquinare la nuova epoca, attraverso un lavacro di sangue lustrale. In molte religioni si sacrifica l’animale totemico (animale divino), che in genere è invece protetto da tabù, pur di rappresentare il passaggio da un’epoca a quella successiva. Anche nel cristianesimo il Dio fatto uomo viene barbaramente ucciso ed attraverso il proprio sangue purifica e rinnova il mondo. Il caso dei dittatori è, per certi versi, ancora più paradigmatico. Essi infatti, pur essendo “comuni mortali” saliti al potere (magari da umili condizioni) grazie alla loro astuzia oppure alla loro ferocia, se hanno la ventura di rimanere in sella abbastanza a lungo tendono a trasformare il loro potere in una sorta di cesaropapismo. Le loro effigi ricoprono le piazze, le strade, gli edifici pubblici e privati. Come moderni Faraoni lavorano senza posa per edificare un mondo (o almeno la loro piccola fetta di mondo) fatto a propria immagine e somiglianza. Mausolei, opere monumentali, scritti pubblici, leggi e festività tutto risponde al loro unico, insindacabile volere, in una rivoluzione dei costumi e delle credenze operata nell’intento di ergersi ad esclusivi ed onnipotenti Demiurghi del proprio stesso monoteismo. Ogni loro azione, ogni loro mania viene mitizzata: la potenza sessuale, la paura delle malattie, l’astuzia, la ricchezza, la ferocia, la magnanimità e chi più ne ha più ne metta. Sono impermeabili agli scandali che demolirebbero ogni altro leader del mondo libero, sono tracotanti con il mondo, nonostante il mondo li disprezzi. Essi sanno infatti di avere nelle proprie mani le sorti, anzi “l’anima” di un popolo che si è affidato loro al di là del bene e del male, della decenza e della logica. Il loro dominio è poggiato sulla Fede che incute rispetto e paura, sull’ignoranza e la piaggeria che generano servilismo ed indifferenza. In un mondo come quello odierno, fatto di pesi e contrappesi, di divisione dei poteri e di leggi di mercato, il loro potere assoluto travalica quello di ogni altro “potente” del globo. Solo comprendendo questo si può comprendere come, per abbattere una simbiosi tanto stretta fra un popolo ed il proprio leader, non si possa semplicemente chiedere di “voltare pagina”. Il Demiurgo deve tornare sulla terra, si deve dimostrare con certezza incontrovertibile che egli non sia quel Dio che pretende di essere, ma un semplice uomo tra gli uomini. Ed al termine di questa destrutturazione mistico-religiosa anche il tabù dell’inviolabilità del capo ha bisogno di essere infranta. Il sacrificio cruento del vecchio leader diviene quindi rito di passaggio a tutti gli effetti, certamente primitivo, ma di cruciale importanza nel cammino sociologico di palingenesi di un popolo-nazione. Il sangue e la carne di colui che ha eretto tutto il proprio essere a simbolo di un’epoca saranno immolati sull’altare della successiva. Per questo motivo, probabilmente, tale copione si ripete uguale a se stesso ad ogni occasione, indipendentemente dal grado di civiltà del popolo di cui si stia parlando. Non è necessario che oggi i giovanotti premiati con la pistola d’oro oppure i miliziani che festeggiano sparando raffiche di mitra alle stelle siano consci di ciò che fanno, ma soprattutto del perchè lo stiano facendo, l’importante è che il rito si compia fino alle sue estreme conseguenze. Per questo motivo è normale provare sentimenti contrastanti di fronte ad immagini come quelle della morte di Muammar Gheddafi. Non è questione di giustificare o meno la violenza (che è sempre ingiustificabile), ma semplicemente di comprenderne le sue ragioni socio-antropologiche. E’ ovvio che un continuo progresso dell’umanità da uno stato primordiale ad uno di sempre maggiore civiltà sarebbe auspicabile... Se dalle pietre focaie siamo passati all’elettricità, dall’assolutismo alla democrazia e dai processi per stregoneria ai computer qualche passo avanti è stato fatto. Eppure chi si intenda di religione e sociologia sa perfettamente quanto tali processi abbiano evoluzioni lentissime e quanto anche un popolo del terzo millennio agisca ritualmente in modo sorprendentemente simile ai propri antenati delle caverne. Di certo sarebbe augurabile che tali “sacrifici umani” si ritualizzassero in forme meno reali e più simboliche. Dopotutto nell’Eucarestia il cristiano non si ciba di carne e sangue, ma di pane e vino, nello stesso modo il tramonto di un dittatore potrebbe essere rappresentato in un più moderno “rito di passaggio”: un processo internazionale, una condanna ad un’eterna reclusione, una pena espiatoria più civile rispetto ad una tragica morte per linciaggio. In attesa che tanta civiltà illumini tutti noi, non possiamo fare a meno di registrare l’ennesima fine ingloriosa di un vecchio leader tanto accecato da se stesso da non sopportare nemmeno il rischio di sopravvivere alla propria caduta dai cieli.

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