mercoledì 18 luglio 2012

Unità d'Italia: Analisi del Coro dell'Atto III della tragedia Adelchi (2011)

Questo testo poetico fa parte della tragedia “Adelchi”, scritta da Alessandro Manzoni tra il 1820 ed il 1822. Nel 3° atto il coro, come nelle opere di tradizione greca, descrive una scena di guerra e di conquista. Un’opera drammatica, solitamente, imporrebbe all’autore di trattare le gesta di personaggi di grande rilevanza, degli “eroi” insomma... Gli influssi del Romanticismo ottocentesco fornirono, però, al poeta gli strumenti utili ad interpretare l’antichità e le vicende delle genti sotto una nuova luce, inducendolo a ribaltare la consueta concezione della tragediografia dominante, presentando una visione più “popolare” della Storia. Così stava avvenendo nella prima stesura dei Promessi Sposi (il Fermo e Lucia), nei quali umili personaggi del popolo lombardo, si muovevano in un ingranaggio storico più grande di loro, così in quest’opera il poeta si impegnò a mostrare la visione dei vinti a scapito di quella dei vincitori. Sempre nel solco del pensiero Romantico, il Manzoni propendeva in quegli anni per le sorti dell’Italia, ancora dilaniata dall’avidità delle potenze straniere che avevano interesse a mantenerla divisa, auspicando la nascita di una nuova Nazione unitaria. Proprio con questo testo, nonostante l’impossibilità di poter lanciare un messaggio palese ai propri contemporanei a causa del controllo della censura austriaca, il Manzoni cercò di svegliare le coscienze dei propri compatrioti, raccontando il passato per parlare al presente. Il coro narra dell’invasione dei Franchi ai danni dei Longobardi e può essere diviso in quattro parti: (strofe di sei versi con dodecasillabi -senari doppi- con rima A-A-B-C-C-B)

1° PARTE - Nei primi 15 versi viene descritto il popolo italico dell’alto medioevo. Un popolo dall’antica gloria, ormai decaduto ridotto in schiavitù dai dominatori Longobardi. Un “volgo disperso” perchè privo di coscienza nazionale, privo di una lingua e di una cultura comune. Un popolo di esseri più simili agli animali (anche nei pavidi comportamenti) ed ai servi della gleba, che ad un insieme di cittadini. In questi primi versi troviamo anche la grande speranza che gli italici ripongono nei Franchi che vedono come il popolo che li libererà dalla schiavitù imposta dagli attuali padroni.
2° PARTE - Versi 16-30. Qui viene descritto lo scontro, simile ad una battuta di caccia, tra franchi vittoriosi e Longobardi vinti. Il linguaggio utilizzato dal Manzoni, già aulico sin dai primi versi, si eleva ancor di più e si esalta nella descrizione vivida, ma certamente non immune da una certa retorica di maniera, della battaglia. Il poeta sa di essere un grande scrittore e, trascinato dall’andamento cantato e solenne del coro, lascia libero sfogo a tutto il suo linguaggio più ricercato, come succederà anche nella terza parte del componimento. Si nota una costante ricerca del vocabolo altisonante e raffinato a discapito di un linguaggio più misurato, che rischia di far passare in secondo piano la sostanza del messaggio, ingabbiato in una forma tanto “dorata”.
3° PARTE - Versi 31-54. Qui viene descritta la genesi della spedizione franca in Italia. Le tinte rimangono fortissime, suoni, colori ed immagini salgono in un crescendo di potenza retorica nella descrizione del viaggio dell’esercito di Carlo Magno e dei pericoli da esso affrontati. Questo climax risulterebbe, come già evidenziato, fin troppo magniloquente, se il suo “fuoco” non venisse spento nell’ultima parte, che riprende la prima e che descrive la cocente ed amara delusione del popolo italico di fronte al naufragio delle proprie speranze di liberà.
4° PARTE - Versi 54-66. Nelle ultime due strofe si consuma tutta la dolorosissima disillusione dei popoli latini. La domanda posta dal Manzoni sul “premio promesso ai vincitori” porta per mano il lettore fino alle estreme conseguenze di ogni guerra: l’umiliazione di un popolo vinto rispetto alle ragioni del vincitore. Perfetta, inoltre, l’analisi poetica che descrive il vecchio establishment longobardo, pur sconfitto sul campo, che non cessa di esistere, ma si unisce ai nuovi padroni mantenendo una parte dei privilegi di cui aveva goduto fino a quel momento. E’ molto chiaro al Manzoni come, in ogni guerra, persino il mutamento della leadership di un paese non possa prescindere dall’appoggio, più o meno condiscendente, del precedente ceto dirigente. Schiacciati tra le ragioni dei vincitori e quelle della politica, ai popoli italici non rimane che tornare in schiavitù, in attesa (ed è questo il messaggio più importante del testo) di un movimento “endogeno” di rinascita nazionale, culturale e sociale.


Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de’ padri la fiera virtù:
Ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s’avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De’ crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l’usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d’ignoto contento,
Con l’agile speme precorre l’evento,
E sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all’addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de’ pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell’arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz’orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
Accanto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha.




Alessandro Manzoni, nato a Milano nel 1785 e morto, nella stessa città, nell’anno 1873, fu uno scrittore, drammaturgo e poeta e fu anche uno dei primi “cittadini italiani” a sedere nel nuovo Senato del Regno. Questo riconoscimento gli fu tributato, oltre che per sue indiscusse doti letterarie, soprattutto per aver speso gran parte della propria vita nel tentativo di dare un orizzonte artistico al disagio politico e sociale italiano dell’itala pre-unitaria. Per questo motivo, proprio nell’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’unità del nostro Paese, potrebbe essere interessante rispolverare un testo come quello mostrato in precedenta che non si annoveri tra quelli più noti del panorama scolastico manzoniano. Tutti, infatti, avranno sentito parlare dei celeberrimi Promessi Sposi, così come del famoso “5 Maggio”, tutte opere nelle quali il messaggio politico non è certamente secondario rispetto a quello poetico e letterario. Nell’analisi del componimento in questione si potranno ritrovare queste stesse motivazioni che spinsero l’autore, impossibilitato a narrare i fatti dell’Italia del suo tempo per timore della censura Austriaca, a scavare nel passato del proprio stesso popolo. In questo modo nacque il racconto di un altro momento storico di umiliazione e di sangue paragonabile a quello che, nella prima metà dell’ottocento, affliggeva la penisola italiana. Il parallelismo con l’epopea di Renzo e Lucia emerge qui con particolare evidenza: Nella stesura dei Promessi Sposi, Manzoni narrò, oltre ad un’immortale storia d’amore, anche la condizione italiana del 1600, mentre il nord della penisola era schiacciato sotto il dominio spagnolo. Nella tragedia “Adelchi” il poeta si rifugiò in un evo ancora più antico, risalendo ai tempi del regno Longobardo in Italia e di quello di Carlo Magno in Francia. I re Longobardi, in contrasto con il papato, non riuscirono a resistere all’invasione dei Franchi. Papa Adriano I, per proteggere le prerogative del nascente stato della Chiesa, chiamò in suo aiuto Carlo Magno che invase l’Italia sconfiggendo l’ultimo sovrano longobardo, Desiderio, e conquistando la capitale del regno, Pavia, nel 774 d.C. Il figlio di Desiderio, Adelchi appunto, in seguito alla deportazione del padre e della madre nelle Gallie, fu costretto a fuggire presso i Bizantini, rinunciando alla successione al trono italiano. Questo atto d’invasione di una potenza straniera, segnò l’inizio “storico” della frammentazione del nostro paese. Così gran parte dell’Italia rimase per circa mille anni preda straniera, oppure sede di piccoli potentati locali (fra i quali spiccò per tanto tempo proprio lo stato della Chiesa), sempre in lotta tra di loro e sempre pronti a chiamare in soccorso delle proprie deboli corone un forte alleato straniero. Se questa divisione, per certi versi, favorì il futuro sviluppo dei Comuni e delle Signorie, ovvero delle manifestazioni politiche più avanzate dell’Europa medioevale e rinascimentale, così come il fiorire di gran parte del patrimonio artistico delle nostre città, annullò allo stesso tempo la crescita di uno spirito di coesione nazionale e sociale, la cui mancanza sentiamo ancora oggi. Ogni Re o Imperatore che, da quel momento in poi, mise piede sul suolo italico lo fece per espandere i propri possedimenti, comprando, vendendo e spartendosi con le armi pezzi interi della nostra penisola, divenuta merce di scambio nelle mani della politica europea. Indro Montanelli, nel libro “l’Italia dei secoli bui”, commentò così l’accaduto: “Così finì l'Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all'Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia. Ma in Francia non c’era il Papa. In Italia, sì”. Manzoni, come è stato ricordato in apertura quindi, prendendo spunto da quell’antico fatto storico, nella tragedia Adelchi raccontò il passato per parlare al presente. La sua tesi è semplice, ma certamente non scontata: Un popolo che non combatta con le proprie forze per i propri diritti, per la propria libertà e per il bene del proprio stesso paese, non potrà attendersi nessun vantaggio da un aiuto straniero. Chiunque intervenga in un paese diverso dal suo, investendo denaro, risorse e vite umane, non farà mai interessi diversi da quelli che gli sono propri, ma cercherà di ottenere il massimo risultato dalle proprie imprese. Questo convincimento, molto chiaro nella testa e nelle opere di molti intellettuali italiani già da secoli, fu recepito dalla parte più colta e attiva del popolo italiano solo nell’ottocento e dette origine al risorgimento che culminò con l’unità d’Italia. Una tesi che non ha perduto la sua validità ancora oggi: Libertà, autodeterminazione, orgoglio e democrazia, insomma, non sono merci esportabili, ma posso nascere solamente attraverso lunghi processi “endogeni” di consapevolezza politica e culturale di un popolo che, solo a quel punto, sarà pronto a prendere il proprio posto nella Storia.

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